Le Sementerie Artistiche sono un luogo dove teatro, formazione e comunità si incontrano in un contesto agricolo e culturale.
Fondate a Crevalcore nel 2015 da Pietro Traldi e Manuela De Meo, sono oggi uno spazio di creazione, residenza e ricerca artistica che intreccia arte e territorio.
Attore, musicista e regista, con una formazione alla Paolo Grassi e collaborazioni internazionali, Pietro Traldi guida questo progetto innovativo con lo sguardo di chi vede nel teatro un seme da piantare e condividere.
Parlando di semine e raccolti, partiamo dal seme del progetto.
Come è nata l’idea delle Sementerie Artistiche?
Ciao Alessandro, eccomi qua, grazie per queste domande e per la possibilità che mi dai di rispondere e di parlare del progetto di Sementerie Artistiche.
L’idea è difficile raccontarla univocamente.
Sicuramente è nata da molte suggestioni, in un periodo ben preciso, anche in cui la nostra età era quella di chi aveva terminato un percorso di formazione, si affacciava nel mondo professionale del teatro italiano, e come molti in quell’epoca, parlo di una decina di anni fa, si trovava alle prese con un mondo produttivo che stava cambiando dopo la crisi economica e tutto quello che conosciamo molto bene; e quindi la necessità era di inventarsi qualcosa di diverso per non lasciarsi schiacciare da chi diceva che tutto stava cambiando, che non c’erano più soldi e che non era possibile fare niente in più di una persona alla volta.
E quindi, in quell’epoca, e sto parlando del 2012, io e Manuela De Meo, che in questi anni poi abbiamo sviluppato, abbiamo lavorato e dato anima e corpo alle Sementerie Artistiche, lavoravamo con Cesar Brie, un regista argentino maestro del teatro con cui abbiamo condiviso un percorso per noi molto importante di formazione all’interno di un progetto realizzato da Ert, e appunto stavamo lavorando con lui e con un gruppo di altri otto coetanei, eravamo alla ricerca di spazi in cui continuare il nostro percorso di compagnia.
Numerosa, indipendente, e a questa ricerca si è unita alla possibilità di avere uno spazio da ricostruire in seguito al terremoto, all’interno di un’azienda agricola che aveva la possibilità e la voglia di riconvertire alcuni spazi precedentemente dedicati all’attività agricola, per ospitare attività diverse, e quindi in questo caso culturali, teatrali.
L’idea nasce anche dopo una tournée in Argentina, in cui siamo stati portando lo spettacolo “Karamazov” con la regia di Cesar Brie.
L’Argentina del 2012 era un paese diverso da quello di adesso, in cui le scelte politiche seguite alla crisi del 2000 avevano appunto creato un sistema molto autarchico, perché non era in collegamento con il resto del mondo, ma in cui c’era un grande fiorire di attività culturali, di partecipazione.
E il teatro in tutto questo era molto fiorente e quindi noi tornati dall’esperienza in Argentina ci siamo detti: o ci trasferiamo in Argentina o proviamo a portare in Italia un po’ di quello spirito che abbiamo appena visto là.
E così diciamo sono nate le Sementerie Artistiche.
Le Sementerie uniscono teatro e territorio, arte e comunità.
Come dialogano il lavoro artistico e la vita della comunità che vi circonda?
Essendo sorte e nate in un luogo dove prima non c’era il teatro, per noi è stato necessario da subito creare una relazione con il contesto, le persone che ci stavano intorno e fare un lavoro che invitasse un pubblico che non era abituato per forza ad andare, probabilmente qualcuno sì, ma nella stragrande maggioranza dei casi e sicuramente tutti, non si aspettavano che lì ci fosse un teatro, in mezzo a un campo.
Quindi il lavoro nostro è stato da subito in relazione con la comunità che avevamo intorno, e abbiamo da subito immaginato tutte le attività, perché potessero favorire, avvicinarsi ed essere accoglienti e attrattive per le persone che, una volta varcata una soglia, si sarebbero trasformate in spettatori e spettatrici, e quindi sarebbero stati nostre complici per dare vita a questo progetto.
Da subito abbiamo immaginato una varietà notevole di attività, negli anni si sono per forza di cose ridotte, perché abbiamo capito quelle che funzionavano, quelle che non funzionavano, quelle che avevamo risorse per portare avanti, quelle che invece non ce la facevano.
Noi dall’inizio abbiamo desiderato che quello spazio fosse una porta che mettesse in collegamento il territorio con il mondo in qualche modo.
E negli anni abbiamo avuto tanti amici, ospiti che sono venuti anche da altri paesi appunto, e che hanno potuto passare del tempo creativo nel nostro spazio.


Il tuo è un percorso professionale internazionale.
Hai lavorato con César Brie, hai fatto tournée in Argentina.
Cosa ti porti dietro da quelle esperienze e come influenzano oggi la tua visione artistica?
Il lavoro con César Brie, e il lavoro con César Brie in Argentina, sono stati per me fondanti.
È stata un’esperienza che ha determinato il modo che ho avuto di intendere il teatro, e il mio ruolo all’interno di questo mondo e di questo ambiente teatrale negli anni successivi.
Anche se la conoscenza con César è avvenuta all’interno di un teatro grosso come Ert, e quindi con delle dinamiche tipiche di un teatro di quel tipo, con César da subito le logiche erano diverse.
Ognuno doveva essere a disposizione di tutto quello che ha a che fare con il momento teatrale, con l’allestimento, con la preparazione, con la cura degli oggetti, dei costumi dopo lo spettacolo, in parte anche con l’organizzazione.
Come se tutti dovessimo conoscere che al di là del momento dello spettacolo, attorno al momento dello spettacolo, prima durante e dopo, ci sono tutta una serie di azioni e di professioni che rendono possibile che il teatro accada.
César concentra nell’attore una serie di competenze che normalmente in realtà più organizzate e stabili sono realizzate da molte figure diverse, molte persone diverse.
E questo se da una parte è un limite, perché ovviamente non si possono improvvisare competenze che richiedono anni di studio e di pratica, e quindi se da una parte il rischio è un po’ di approssimazione o, come dire, una richiesta eccessiva a ciascuno, e un po’ uno sfruttamento volendo da quel punto di vista, dall’altra ha permesso a me di avere uno sguardo molto più completo sui lavori che ci sono, e le necessità che ha uno spettacolo per andare in scena.
Mi sono ritrovato quindi a fare una grande quantità di cose che non avevano niente a che fare con recitare, ma che erano funzionali al fatto che a un certo punto potessi recitare.
E questo secondo me è molto interessante, ha i suoi limiti ma ci ha permesso in questi anni di dare vita alle esperienze che abbiamo poi anche realizzato con Sementerie.
L’altra cosa che ci ha insegnato Cesar è che il tempo è la nostra vera ricchezza, e che possiamo decidere come impiegarlo, e nessun altro può deciderlo al posto nostro. Cesar e l’Argentina ce l’hanno insegnato.
Che in realtà non serve nient’altro che la decisione di usare il proprio tempo per realizzare quello che si desidera insieme agli altri.
Viviamo in un mondo che ci dice continuamente che ci sono molte più necessità di queste due cose che ho appena detto, per poter realizzare i progetti, per poter fare teatro, perché poi di questo stiamo parlando.
L’esperienza con Cesar e con l’Argentina ci ha insegnato che non per forza è così, da una parte, e dall’altra parte ci ha insegnato però anche quanto è necessario trovare un dialogo e un’integrazione positiva con l’aspetto della sostenibilità e l’aspetto di tutte le professioni che sono attorno, che lavorano perché il teatro sia possibile.
Il vostro luogo è un teatro “agri-culturale”, un luogo che ha un legame forte con la terra e il paesaggio.
Che valore ha, per te, il contesto rurale nell’esperienza teatrale e creativa?
Per noi il contesto in cui è nato questo progetto non era eludibile.
Abbiamo cercato di trasformarlo in un punto di forza, di includerlo e di guardarlo creativamente, il contesto, il paesaggio, l’ambito rurale in cui ci troviamo, e farlo diventare un punto di forza.
Questo ha funzionato, ha portato una grande ricchezza di visione e ha permesso alle cose di accadere, di trasformarsi in bellezza.
Allo stesso tempo ha fatto emergere un limite, in questo momento in Italia, per esperienze del genere che sono al di fuori delle strutture pubbliche: è molto complicato trovare le risorse che permettano di rimanere in piedi salvaguardando l’obiettivo artistico.
Il valore del contesto rurale è sicuramente alto dal punto di vista poetico, politico, ed è sicuramente problematico dal punto di vista della sostenibilità.


Guidare un progetto così complesso significa fare scelte ogni giorno. Costruire programmazione e residenze.
Le Sementerie sono anche un luogo di formazione.
Che cosa cerchi di trasmettere ai giovani artisti che passano da lì e cosa, invece, impari tu da loro?
In questi anni ho capito che per me è un enorme mistero, fonte inesauribile di meraviglia e di altrettanta voglia di sperimentare, il fatto che non abbiamo bisogno di nient’altro al di fuori del nostro corpo, della nostra immaginazione, della relazione con gli altri, della relazione armonica con gli altri e con lo spazio in cui siamo inseriti, per dar vita al teatro.
E per dare il via a questa possibilità che abbiamo, come esseri umani, di vedere quello che non è visibile, di vedere insieme quello che apparentemente appunto non è visibile e di trasportarci per un tempo da altre parti.
Diciamo esercitare questa possibilità che abbiamo di visione, proprio di sperimentare quindi far diventare esperienza la visione.
Questo mi sembra potentissimo, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui le visioni sono spesso cupe o a corto respiro. Invece visioni luminose e a lungo respiro mi capita di condividerle e di viverle in teatro.
Quindi a partire da questa massima, quello che io cerco di trasmettere, e quindi anche nel momento in cui lo trasmetto di confermarlo a me stesso e di come riviverlo, è proprio questa necessità e questa possibilità che abbiamo di presenza nello spazio in relazione agli altri. Per me tutto si origina da questo e tutto si riconduce a questo.
È da qui che parto ed è a questo che arrivo.
E devo dire che è possibile condividerlo anche da un punto di vista pedagogico questo discorso, e quindi trovo una grande fortuna quando riesco a farlo: fortunatamente mi capita spesso.



