LVD INTERVISTA SILVIA COGO

La creatività è un ponte che mette in dialogo immaginazione e realtà.
Silvia Cogo, esperta di creatività applicata, designer e docente, esploratrice dell’Arte Relazionale, crea progetti partecipativi.
Tra i suoi progetti: Buzz in the Attic, Concerto Verticale, Risvegli.
Insegna all’Accademia di Belle Arti di Venezia ed elabora metodologie sullo sviluppo del potenziale creativo dell’essere umano divulgandole attraverso laboratori e consulenze individuali.

Ciao Silvia, innanzitutto spiegaci il concetto di creatività applicata.

Si tratta di una disciplina, almeno così lo è per me.
Un modo di stare nel mondo, una postura!
Usando delle immagini accosto la creatività applicata ad un contenitore di esplorazione di dimensioni indefinite, un crogiolo alchemico, un sistema di vasi comunicanti.
Ciò che da circa 20 anni ha catturato il mio interesse è il processo creativo che si annida dentro ognuno di noi e che, se condotto con un po’ di maestria, può portare grandi vantaggi nella nostra professione e nel nostro quotidiano.
E per permettere ad un processo creativo di svilupparsi è necessario farsi contenitore di fasi di transizione inappropriate.
La nostra capacità di stare in sospensione fiduciosa di fronte all’emergere di istanze che percepiamo come erronee, inadeguate, insufficienti, o fallaci in qualche misura.
Insomma, imparare a far dialogare la nostra immaginazione con la realtà.

Questo è un magazine che parla soprattutto di teatro.
Quali sono i punti di contatto tra il tuo mondo e il nostro?

Le attività, laboratori che conduco presso eventi, festival, università, scuole, aziende si basano su un fondamento che uso come bussola. L’intelligenza, la fiducia totale che ho nel corpo.
Intelligenza intesa come capacità di sopravvivenza, ci tengo a sottolinearlo perché spesso si finisce per visualizzare un cervello riferito a questa parola.
Tutto ciò che propongo non utilizza slide, PowerPoint o documenti; non metto in condizioni nessuno di partecipare richiedendo capacità o prestazioni particolari.
Il corpo è il nostro strumento e propongo movimenti semplici, attività a bassissimo impatto di performance, per permettere che “esso” ci faccia accorgere di cose che la testa interpreta facendoci finire in posti poco utili.
Tra le azioni e movimenti che propongo ci sono alcuni momenti che possono richiamare la meravigliosa Contact Improvisation o ritualizzazioni che implicano una messa in scena.
Qui potrebbe avvenire l’incontro tra il teatro e quello che faccio.

In che modo le diverse discipline artistiche – design, arte, teatro – possono parlarsi tra loro?
Hai mai tratto ispirazione dal linguaggio teatrale?

Le tre discipline che indichi qui mettono in scena… chi un oggetto, chi un quadro, chi una performance, una installazione.
Tutte cercano di farsi vedere e farsi applaudire, tutte cercano di esistere e farsi riconoscere come portatrici di riflessioni, messaggi. Come esseri umani abbiamo così tante forme espressive a cui attingere che c’è l’imbarazzo della scelta.
Forse, in modo inconsapevole, ho tratto ispirazione dal linguaggio teatrale.
Non ho mai studiato teatro in forma diretta, lo vivo da spettatrice e vanto l’amicizia con diversi amici attori che mi permettono di accedere alle fasi di ideazione e preparazione, assistendo a momenti di poesia alternati a momenti di frustrazione e ansia.
Nulla di diverso da quello che accade anche negli ambiti del design e dell’arte.

Il gesto artigianale e il corpo dell’attore in scena condividono l’idea di una presenza viva, in divenire.
Ritrovi in questa lettura qualcosa che fa eco nel tuo lavoro?

Praticare, agire, muovere le mani, il corpo, restano per me le occasioni migliori per offrirci quello spazio di esplorazione che la testa, il pensiero, non concede perché finisce per psico-analizzare, intellettualizzare e quindi produrre immagini che spesso si accendono in noi in modo istantaneo e con la stessa velocità si spengono per passare ad altre.
Il corpo, le mani, il movimento implicano una attenzione, anche se minima, sufficiente per distrarre la testa e il pensiero o per lo meno per accompagnarlo con più possibilità lì dove siamo in quel momento.
Sì, i laboratori che conduco non usufruiscono di strumenti come powerpoint o slide ma cercano di passare attraverso il corpo usando strumenti semplici come alle volte degli oggetti che trovo nella stanza.

Il tuo fare include anche il design partecipativo. 
Cosa significa per te creare insieme agli altri?
Ho sempre pensato che oltre alla formazione attoriale ci dovrebbero essere corsi di formazione del pubblico.Ci sono strategie o dispositivi che usi per far emergere l’immaginazione collettiva?
Cerco di adottare la postura del “libera tutti” nei miei laboratori e consulenze individuali.
Mi riferisco alla possibilità di disgiungersi in qualunque momento. Questa premessa alla tua domanda riguarda il fatto che per tentare di creare un’immaginazione collettiva dobbiamo stare tutti comodi.
Come dice il caro amico e maestro Bruno Lomele nell’Amore Amorevole: “Per essere felici insieme dobbiamo essere felici entrambi”. Senza questa condizione le possibilità che accada una sintesi, una gestalt collettiva si abbassano inesorabilmente.
Le leve che utilizzo possono prevedere l’aumento graduale dei vincoli per raggiungere strati di complessità, sottrazione di risorse o sensi, uso di algoritmi, la moltiplicazione di elementi in campo, l’estremizzazione di una situazione o di una condizione, la creazione di continuità o frammentazione in un contesto, la ritualizzazione.

Qual è stata una sfida inaspettata (o un errore creativo prezioso) vissuta durante un progetto partecipativo?
Uno dei progetti di cui vado molto orgogliosa è Buzz in the Attic, un condominio a Padova, composto da 8 famiglie, compresa la mia, di diverse provenienze ed età anagrafiche, che è riuscito ad aprire le sue porte a degli estranei superando argomenti come la paura di chi non conosco, la diffidenza di far avvicinare persone sconosciute ai nostri luoghi intimi.
Nella soffitta condominiale, per oltre 4 anni (a cadenza di 20 giorni), proponevamo incontri e momenti di poesia, musica, letture tutte realizzate dagli stessi partecipanti che non conoscevamo.
Si ricreavano occasioni a bassissimo impatto di aspettative e giudizi e quindi generative di momenti per stupirsi, commuoversi, sviluppare senso di empatia e comunione.
Oggi sto riproponendo questa esperienza in un nuovo condominio a Padova, dove vivo parte dell’anno, ma questa volta utilizzando le scale come luogo d’incontro.

Tu ti sei occupata di materiali molto diversi: la ceramica, i metalli dei gioielli, la parola nella docenza.
Come scegli il materiale giusto per raccontare una visione?

Quando escono dei buoni progetti è perché ho lasciato che fosse il materiale a scegliere me. Io cerco solo di stare attenta all’innesco.
Cerco di essere precisa nel definire il contesto, l’essenza e tutto il resto si compone con una certa facilità.
Nell’avanzare devo stare attenta a me, alle spinte che ho dentro, il desiderio di mettere le mani sopra al progetto.
Perché alle volte mi ostino che quell’idea debba essere rappresentata con un materiale che conosco e che ho già nel mio archivio di esperienze.
Ma quando riesco a lasciare che il materiale si riveli, da solo, allora accadono i miracoli e mi esplode il cuore per lo stupore.

Gli oggetti possono raccontare storie.
Cosa rende un oggetto “narrativo”?
Hai mai pensato al tuo lavoro come a una forma di drammaturgia materica?

Si!
Se per materico possiamo includere anche il corpo, i movimenti, i gesti.
Nei laboratori che propongo sono proprio questi elementi a diventare pretesto, forza espressiva, occasione di una riflessione su esperienze, vissuti, storie di vita.

La creatività si insegna o si può solo favorire?

La creatività è per me una postura generativa, un modo di confrontarsi con il mondo nel quotidiano e per ciò che ho raccolto fino ad oggi sull’argomento, e i continui confronti in contesti formativi, mi trovo a rispondere a questa domanda dividendola in due momenti possibili.
Posso favorire un contatto con la creatività, cercando di metterne in luce i vantaggi per coloro che non li vedono, non li riconoscono, ma se loro stessi non li incontrano dentro di loro purtroppo non si può fare nulla perché con questi presupposti non nascerà il desiderio per migliorare la propria creatività mettendosi a disposizione dell’apprendimento.
Mentre posso insegnare, quindi trasferire tecniche e metodologie per entrare nel territorio creativo e gestirlo con maggiore confidenza a coloro che hanno già indossato motivazioni personali per andare in questa direzione.

Se dovessi immaginare un oggetto o un’installazione da portare in scena, che forma avrebbe?
Cosa racconterebbe?

In scena (durante i laboratori) porto prima di tutto il corpo; ma, in una sezione dei temi che affronto (la creatività collettiva) uso un medium un po’ particolare: uno spaghetto.
Dello spaghetto mi interessa la capacità che ha di farci esplorare e cogliere dei particolari relazionali quando stiamo tentando di realizzare un progetto con più persone coinvolte.

Oggi si parla molto di un ritorno alla sostenibilità, alla comunità, alla lentezza, in una società che scrolla, che ha abbassato a 8 secondi il livello di attenzione media, che ha aumentato l’analfabetismo di ritorno. Che ruolo ha l’arte in questo cambiamento culturale?

L’arte, in molte epoche storiche, assume il ruolo di strumento sociale sentendosi portatrice di istanze come uguaglianza, memoria, identità, libertà, per dirne alcune.
Come lo fa, tendenzialmente? Mettendoci scomodi, producendo effetti di inquietudine che hanno come compito quello di promuovere in noi riflessioni, momenti di introspezione e consapevolezza.
È un tipo di postura, quello dell’arte e dell’artista, che, nonostante i buoni propositi, in diverse occasioni, non la sento molto diversa da chi si pone come maestro davanti ad un allievo incapace, o come ad un’elite davanti ad un pubblico ritenuto inferiore creando una distanza che non permette dialogo sincero.
Diverso è l’effetto quando l’arte diventa un esempio, una possibilità di diversità, una proposta alternativa senza dire che questo è meglio di quello, senza dover correggere niente e nessuno; chi vuole e può la riproduce o traduce come buona pratica per la propria vita.

Se potessi scegliere un’utopia creativa da realizzare domani, quale sarebbe?

Non sono una persona spirituale; mi sento molto fallibile e terrena per questo incapace di produrre ideali a cui rivolgere il mio sguardo e dedicare i miei pensieri.
Mi sento però molto nutrita quando sono in contesti formativi e offro quello che la creatività mi ha insegnato e come ha fatto virare la mia vita in luoghi dell’umano in cui mi sento molto meglio.
Faccio un esercizio e provo a rispondere alla tua domanda nella quale traduco utopia creativa in un gesto che fa intravedere un altro modo di abitare il reale.
Immagino un rito urbano di cura dove gruppi di cittadini, scelgono un angolo trascurato (aiuola, muro, panchina…) e gli dedicano un tempo per ridargli dignità, oppure una biblioteca vivente dove non ci sono libri ma persone pronte a raccontare aneddoti della loro vita, un museo effimero in cui ognuno porta una cosa prelevata dal suo quotidiano esponendola con una didascalia.

A teatro le emozioni scaturiscono spesso un risultato che trovo bellissimo: la commozione.
Cosa ti commuove nel tuo lavoro?
Incontrare altro da noi stessi durante la produzione di un lavoro artistico.

un progetto di:

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