ALESSANDRO DALL’OLIO INCONTRA EMANUELA ROLLA

Il Teatro è uno spazio d’ascolto, un atto vivo. Voce, corpo, scena, parola. Emanuela Rolla incarna le molte vite che ci sono dentro al teatro. Proprio in questo momento sta tenendo un residenziale intensivo in Toscana e, tra un impegno e l’altro, sono riuscito a raggiungerla telefonicamente per questa intervista.

Il tuo percorso attraversa diversi ruoli: attrice, autrice, regista, formatrice, acting coach.
Quale di queste “voci” ti rappresenta di più oggi? O sono tutte parte della stessa visione?
Credo che sono tutte parti di un prisma che ha più facce, perché amo essere attrice, amo il mio studio studio che mi fai entrare nei personaggi, nelle circostanze, nei dettagli. Amo dirigere, e quindi vuol dire dare corpo alle mie visioni, con un gruppo di persone che si affida a me e che assieme a me andiamo nella stessa direzione, far delle scelte che possono essere anche giuste o sbagliate, o piacere o meno ma con una direzione. E mi piace anche invece il lavoro one-to-one con gli attori, per far nascere un percorso artistico e dar vita a un’altra parte di quell’attore che è il personaggio, con un corpo che è quello dell’attore ma con altre modalità di movimento, un altro tempo-ritmo, un altro modo di vedere nel mondo. Quindi tutte tre sono facce di un prisma e tutte tre per me fondamentali. Non mi vedo separata una dall’altra, diciamo.

Che cos’è per te il teatro, oggi? Una professione, una vocazione, una pratica politica, un linguaggio?
Per me il teatro è una casa. È una casa d’arte dove ci sono delle persone con un intento di lavorare su di sé, tramite la letteratura, la poesia, l’arte e portare qualcosa che provochi uno stimolo, una domanda, una curiosità, porta degli interrogativi sulla società. Quindi penso che il teatro sia un atto politico, ma non tanto come forza di meccanismo politico, ma perché è una comunione di persone che riflettono su degli argomenti insieme. Per me la politica dovrebbe aver questo senso. È un atto di libertà, dovrebbe essere un atto di libertà e non penso che lo sia, è un mezzo per potere incontrarsi e discutere di qualcosa assieme. Quindi sarebbe una rarità, una cosa molto preziosa questa, non so se accade, se si riesce a far accadere, a volte sì e a volte no. Per me il teatro è proprio una casa d’arte, stare assieme in comunità con altre persone, far iniziare un viaggio, attraversarlo, alla ricerca di qualcosa. Con un impulso anche.

Che tipo di lavoro corporeo e vocale pratichi e trasmetti? Cosa significa per te “abitare il corpo” sulla scena?
Vuole dire essere organici, vuol dire stare innanzitutto dal respiro, senza il quale non saremmo neanche vivi, vuol dire riuscire a capire che le parole che un autore, di questa epoca o di un’altra ha scritto, hanno un corpo, sono fisiche, hanno un significato, portano un significato e contengono un significato. Vuol dire essere vivi di momento in momento. Non solo quindi lavorare sulla punta dell’iceberg che è la battuta, ma portare a galla come quei pensieri e quelle parole nascono da qualcos’altro che è la storia che il personaggio ha addosso.

La presenza scenica è qualcosa che si allena o si rivela?
Entrambe. Uno può partire con un’attitudine, una forza, una sicurezza, una energia che si emana nello spazio e che quindi invade lo spazio. E poi credo che la presenza scenica venga allenata con il rigore che il palcoscenico chiede, perché io posso avere una presenza scenica ma non averne la consapevolezza e quindi il rigore che ha che fare con la cura – perché la parola rigore per noi può suonare male ma ha a che fare con la cura – di ricercare il dettaglio e dar luce a qualcosa di piccolo, ma quel piccolo ha una espansione nello spazio incredibile. E quindi la presenza scenica si ha e si allena, costantemente, come bagnare una pianta, l’amore di una coppia, va coltivato tutto sempre, non bisogna dare per scontato nulla. Non che uno dice “ho presenza scenica e non faccio nulla”: no, è una dote, ce l’hai, è quello che si chiamerebbe un x factor, ma poi ha a che fare con una serie di attitudini che aumentano e potenziano quella cosa lì.

Da formatrice e coach accompagni spesso artisti, ma anche persone non professioniste.
Qual è per te il potere formativo del teatro?
È l’essere umano.

 

Qual è stata un’esperienza di formazione (data o ricevuta) che ti ha segnato profondamente?
Ricevuta ovviamente l’incontro e la continua formazione fortunata, mi sento molto una privilegiata che ho con Susan Betson e Carl Ford dello studio Beston di New York. Io potuto lavorare con lei dal vivo dal 2003, e poi grazie a zoom che c’è mi permetto di continuare delle lezioni, di preparare i miei personaggi, le mie cose, e anche i provini con loro. E adesso ho la possibilità di andare a New York una o due volte all’anno per incontrare lei e studiare dal vivo. Ci sono anche altre persone importanti che mi hanno formato come Michael Margotta, che lo considero come un padre artistico, Giles Forman che è un’anima che accoglie altre anime, quindi sono tutti acting coach, straordinari insegnanti con una umanità altissima, e ascolto dell’essere umano. Una formazione forse che ho dato con un percorso è sicuramente l’incontro di tante vite, di esseri umani, quindi per me prima dell’attore c’è l’artista e prima dell’artista c’è l’essere umano. Sicuramente una bambina che avevo alle elementari, quando insegnavo teatro alle elementari, questa bambina che ha fatto come tutto un percorso, c’è un legame di vent’anni, oggi è diventata una giovane attrice professionista talentuosa che ama l’arte e il teatro. E quindi c’è il percorso di una vita, di un rapporto madre figlia, sorella maggiore forse, ma prima di tutto c’è il rapporto umano.

Come nasce un tuo progetto teatrale? Dalla scrittura, dal corpo, da un’urgenza?
Da un’urgenza. Dall’urgenza che un messaggio, un tema, un argomento che voglio affrontare, approfondire, portare. E poi da lì nasce spesso prima l’esplorazione del personaggio, se non c’è già un testo classico, codificato, una sceneggiatura che viene scelta, e dal lavoro sul personaggio poi nasce spesso invece tutta la parte del copione.

Che relazione instauri con gli interpreti quando dirigi?
E come cambia lo sguardo, quando sei tu a salire in scena?
Allora, con la maggior parte delle persone che dirigo ho tutto un rapporto umano, però al tempo stesso poi divento quella persona che corregge, e a volte anche in maniera abbastanza decisionale, quindi scartando e scartare qualcosa potrebbe ferire l’altro. Ma so che c’è una fiducia lavorativa che fa parte di un legami intrinseco che si crea fra due persone, s’instaura per andare in questo viaggio che si fa assieme. Quando vengo diretta, la necessità forse di qualcuno che non si limita a chiedermi un lavoro circostanziale di battute ma che mi permette di fare un viaggio di esplorazione molto profondo, quasi a scavare in zone che non conosco, quindi quasi a esplorare tutto quello che non conosco, quindi in zone di no confort, e che mi permette di confrontarmi: un confronto non tanto su opinioni diverse, ma un confronto del processo artistico e quindi lì c’è una evoluzione. Mi aspetto più domande, interrogativi, piuttosto che avere risposte. Lasciarmi delle domande che mi fanno crescere, ecco questo vorrei. Spesso sono diretta anche così nella comprensione e nell’umanità, questo sì, nel rispetto ma con nessuna pappa pronta, con l’ignoto, e so che c’è qualcuno accanto che mi sostiene, cammina accanto a me, ma mi lascia nel mio ignoto. Dall’altra parte ci sarà lui ad aspettarmi magari.

Cosa significa oggi fare teatro in Italia, in relazione al pubblico e alla società?
Questa è una domandona! Non credo di essere pronta o la persona giusta a rispondere, credo di essere una persona fuori dal coro, nel senso che mi rtengo un artista libera, posso piacere o non piacere, famosa o non famosa, faccio quello che mi piace e faccio quello in cui credo con le persone che amo. Questo lo ritengo una delle forze più grandi, sono fortunata, ogni volta incontro attori e artisti che hanno veramente qualcosa di umano, di arricchente e che credono e hanno una grande visione personale, poi non vuol dire per forza acclamata e confermata dal pubblico, e lì comunque c’è un grande viaggio.
Rispetto alla società è faticoso, perché credo che il teatro è congestionato da un meccanismo di struttura che fa parte anche di questo mestiere, di forma, di robe, di appagamenti per il pubblico che è la macchina mortale di ogni artista: appagare il pubblico per ottenere un riconoscimento. Fare teatro per il pubblico dovrebbe essere la cosa fondamentale non tanto per avere l’appagamento del pubblico, ma perché il pubblico è l’altro artista, l’altro attivo, presente nella scena, senza il pubblico non esiste un teatro. Quindi è grazie al pubblico, che è quindi l’altro da me, che mi permette di investigare il tema o esplorare questa cosa, e il pubblico dovrebbe essere una ascoltatore attivo, non passivo che delega al comprare un biglietto la propria presenza in una sala, compartecipa in un atto in un percorso da un altro punto di vista: l’ascolto è attivo e come ascoltatore attivo ha il potere di far sue quelle tematiche, svilupparle ulteriormente in un secondo tempo, anche a casa, interrogarsi ulteriormente quindi farsi aprire dalle domande che quell’atto può creare e sviluppare un percorso.

Se potessi trasmettere a una giovane attrice/attore una sola cosa, quale sarebbe?
La gratitudine e l’umiltà che ci vuole per far questo mestiere, e l’amore, la dedizione della cura del dettaglio. Una sola cosa? “Che senso ha se ti salvi solo tu?”, che è una citazione di Antonio Neuwiller.

Il teatro può cambiare le persone? E se sì, in che modo lo ha fatto con te?
Se non avessi avuto il teatro non so bene cosa avrei fatto. Non mi so immaginare da un’altra parte senza il teatro, ma non perché sono formidabile. Questo faccio da quando sono giovanissima. Mi ha dato la possibilità di continuare a sognare e a sperare, a avere un desiderio, quindi una pulsione e di stare in atto di creazione, quindi ha a che fare con la pancia, con la creazione, con il mettersi in discussione. E quindi la crescita. Crescere.

Cosa vedi nel futuro artistico italiano?
Il silenzio, vedo. Credo nella parte più dei giovani, molti giovani che hanno delle visioni e osano anche a portare queste visioni. Quindi, se penso al teatro penso a una parte di forza giovanile, che può uscire da degli schemi convenzionali e dei cliché. Dove c’è un cliché, in qualsiasi forma l’arte incontri un clichè lì c’è la morte di qualcosa, e quindi nella forma di sovversione, di rivoluzione interiore, di irrequietudine, sempre citando Antonio Neuwiller, dovremmo essere mobili ma in ascolto interiore, uniti come viaggiatori inquieti che si trovano e continuano a camminare nonostante l’irrequietudine. Ecco, spero questo: che nonostante l’oscurantismo, le difficoltà politiche, sociali e economiche, ci sia gente sempre pronta a continuare a perseguire il proprio sogno nonostante i mezzi non ci siano. Io sono una di queste, non ho sovvenzioni, continuo a fare teatro, ad amare quello che faccio. Può non piacere, fa parte delle regole del mercato, quindi ci sta anche quello.

Grazie Emanuela, sempre un enorme piacere confrontarsi con professioniste come te e avere il privilegio di poterle dire amiche.
Grazie Alessandro, sono domande pazzesche e ti confermi la persona squisita che sei, con una grande sensibilità e con la capacità sempre di aprire: aprire la vita, aprire il teatro, aprire tutto, e rilanciare.

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