Eugenio Maria Bortolini è attore, drammaturgo e formatore teatrale, un artista con radici profonde nella scena bolognese e una visione che unisce impegno sociale, narrazione e teatro d’arte.
La sua ricerca si muove tra teatro di parola e teatro fisico, con una scrittura sempre attenta all’essere umano, alle sue fragilità e contraddizioni. Un attore che alterna umorismo e prosa.
Con un piede nella scena e l’altro nella formazione, porta avanti una poetica che unisce il racconto, l’indagine e la relazione con il pubblico, facendo del teatro un luogo d’incontro, di ascolto e di crescita.
Teatro e radici locali.
Crescendo a Bologna e sviluppando gran parte del tuo lavoro qui, quanto conta per te il legame con il territorio nella tua visione di attore e drammaturgo?
E come questo legame influisce sui temi che scegli di raccontare?
Devo riconoscere che io non ho mai pensato a un legame forte o stretto tra la mia attività e la città di Bologna, che è una bella città con una bella atmosfera, ci mancherebbe; però sostanzialmente può anche rappresentare un limite, dove l’attore si vuole invece spingere a una platea che non abbia confini.
L’essere troppo legati alle proprie radici, forse, a livello teatrale intendo, può essere un ostacolo anche paradossalmente. Io credo che il teatro sia come la musica, deve essere un linguaggio più o meno leggibile e fruibile da tutti.
E poi chiaramente la musica ha il vantaggio che ha le note che possono essere capite da tutti e apprezzate da tutti.
Il teatro ha la parola. Però anche la parola non deve avere dei limiti e dei confini: deve essere una parola libera e questa è la forza poi del teatro.
Drammaturgia e impegno sociale.
Hai scritto e diretto spettacoli che affrontano temi civili, sociali, visite teatrali ai musei…
Come scegli il tema di un nuovo testo teatrale e quanto pesa per te la dimensione educativa e sociale del teatro?
Sono convinto che l’esperienza teatrale e formativa siano un arricchimento profondo per il pubblico, per gli autori, per gli attori.
Ed è proprio in questo scambio simbiotico che risiede l’importanza della sensibilità dell’autore, nella proposta dei temi, che appunto affronti dopo gli approfondimenti.
Perché il teatro è cultura, questo è indiscutibile, è scambio ed è sensibilità sociale da sempre.
La chiave per raggiungere una platea più ampia, secondo la mia esperienza, è cercare di utilizzare simultaneamente più registri comunicativi per arrivare ovviamente a un pubblico più numeroso e più articolato.
Il linguaggio deve essere semplice, ma deve essere comunque qualcosa che attivi un interesse, un’emozione. Ecco, tramite l’emozione si crea immediatamente un processo educativo e sociale.
Ecco perché ho sempre provato a fare e a mettere in scena cose che ti lascino un messaggio, che ti lascino qualcosa, sul quale pensare, riflettere, perché credo che questo sia uno degli obiettivi base. Divertimento per divertimento è un altro tipo di arte, che non voglio sminuire, ma è un’altra cosa: il teatro è qualcosa di superiore.


Nella tua pratica artistica il testo e la parola sono fondamentali, ma non gli unici strumenti di narrazione.
Come pensi il rapporto tra voce, parola e silenzio nel teatro contemporaneo?
In un mondo dove le modalità comunicative hanno conosciuto evidentemente una trasformazione velocissima, profonda e anche, mi permetto di dire, un impoverimento, ecco, io penso che la parola, il tono, le pause, lo stesso silenzio che se lo eserciti sulle tavole del palcoscenico diventa un silenzio rumoroso perché anche il silenzio ti comunica tante cose, possano e debbano avere ancora un ruolo da protagonisti e rappresentare la leva di grandi emozioni che solo il teatro può dare.
A volte, ed è questo il grande vantaggio che l’attore teatrale ha, riuscire a veicolare anche solo con linguaggio non verbale o paraverbale ciò che vuole intendere, è il grande vantaggio che il teatro apporta, che diventa veramente un enorme catalizzatore di processi comunicativi in entrata e in uscita, perché naturalmente parliamo di comunicazione in entrambi i sensi.
Che tipo di relazione cerchi con chi ti guarda?
E quanto sposti la frontiera tra palco e platea nel tuo lavoro?
La relazione col pubblico è una delle cose più belle che un attore teatrale può provare e deve provare.
È una emozione costante che deve sempre rimanere dalla prima volta che sali sul palcoscenico all’ultima.
Quell’adrenalina, quella paura positiva, è forse lo stimolo più grande che un attore deve avere e devo riconoscere che ogni spettacolo poi rappresenta anche un’esperienza a sé, anche perché il pubblico risponde sempre in modo diverso, non è banale; quindi puoi essere un po’ distaccato, timido, oppure avere maggiore slancio, esprimere le emozioni che provi in maniera più incisiva, però in ogni caso quella è una scelta che però l’attore deve sempre fare: non può fare a meno di uscire dal personaggio che interpreta e quindi di diventare solo spettatore.
Sicuramente però in qualche misura entrare nell’empatia della platea, e creare quell’atmosfera anche di silenzio e attenzione che testimonia la concentrazione che ogni attore vorrebbe percepire dal pubblico quando è sul palco, è basilare.
Cioè il percepire il pubblico credo che sia la cosa più importante, soprattutto questo diventa come sempre, perché sappiamo che il teatro è una grande metafora di vita, soprattutto in una dimensione come la nostra, in una società come la nostra, dove avendo il mezzo informatico che molte volte crea questa parete di vetro, kafkiana quasi, che è lo schermo appunto dello stesso mezzo, e che crea quindi una barriera tra te e il resto, tra te e gli altri, ecco il teatro, benché esista la quarta parete, offre la possibilità di sfondarla e credo che questo oggi più che mai sia importante, andare oltre, sentire, sentirsi e farsi sentire.


Sei stato docente, coordinatore, progettista di stage.
Cosa cerchi di trasmettere ai tuoi allievi, non solo come tecnica teatrale, ma come visione del teatro?
E cosa hai imparato da loro negli anni?
È una bella domanda.
Non è facile dire cosa si vuole trasmettere agli allievi o alla tua platea, sicuramente però posso dire quello che mi prefiggo.
Quando sono formatore cerco di tenere lezioni che possono essere ricordate, usate. La formazione e la pratica attoriale sono discipline solo apparentemente diverse, ma sono molto affini in realtà.
Ciò che ho imparato è che quando esprimo buoni contenuti, questi saranno ricordati. E anche il relatore o l’attore lo sarà.
Questo poi in fondo è il successo: riuscire a lasciare un segno, qualunque esso sia. Non passare inosservato, forse è quella la cosa più importante.
Una citazione, diceva qualcuno, “muori davvero quando nessuno più ti sogna”. Ecco, forse questo è l’obiettivo: quando nessuno più ti sogna, sparisci. Se invece lasci qualcosa, se qualcuno continua a sognarti, a parlare di te, di quello che gli hai lasciato, eccetera, rimani.
Forse questo è ciò che si cerca di trasmettere: che un pochino di sé continui.
Tu sei stato anche direttore teatrale.
In un contesto in cui l’arte e il teatro spesso non vengono valutati nella loro insostituibile importanza, in momenti nei quali gli under 35 non vanno a teatro, come si possono superare queste difficoltà?
Attirare i giovani a teatro è comunque una bella sfida.
Perché il teatro dai ragazzini viene considerato qualcosa di vecchio. Spesso mi è successo, che qualche attrice giovane, avendo chiamato le amiche, magari a vederla in teatro, le amiche stesse si siano meravigliate, perché consideravano, e cito proprio loro, “pensavamo che fosse roba da vecchi, teatro da vecchi”.
Forse l’allontanamento di queste generazioni, è sempre da ricercarsi nel mutamento profondo dei processi di comunicazione, che ovviamente sono intervenuti con la digitalizzazione esasperata, eccetera. Io penso però che con gli argomenti giusti, valorizzando anche i giovani autori, perché il teatro classico ci ha lasciato pagine immortali ed emozioni straordinarie, però forse per una giovane generazione che considera, erroneamente, certi testi, certi concetti, certi passati, appunto vecchi come li definiscono, forse invece puntando sulla nuova generazione di autori, anche di argomenti che queste persone possono portare, con un po’ di pazienza anche nuove generazioni possono avvicinarsi al teatro.
E apprezzarne le emozioni che regala, perché poi sostanzialmente la gioventù temo, e dico temo perché sarebbe un vero peccato se avessi ragione, che sia un po’ arida a livello emozionale.
La digitalizzazione ha portato a una siccità emozionale. Forse se si riuscisse a far capire che invece ci sono ancora tante cose che il teatro può dare, tramite il quale si può crescere anche dal punto di vista personale, eccetera, empatico appunto, forse questa potrebbe essere la chiave. Ma è una sfida, questo senz’altro, e non è facile.
Però sappiamo che noi attori, noi autori, noi registi siamo un po’ Don Chisciotte: ci piace andare contro i mulini a vento e magari qualcuno lo abbattiamo pure.
Se dovessi immaginare il tuo prossimo lavoro o progetto ideale, che forma vorresti che avesse?
Io sono un attore di prosa.
Nasco e cresco e sono felice di essere attore di prosa, quindi ciò che posso vedere in proiezione, per eventuali progetti futuri, è comunque qualcosa che si rifà a questo tipo di tecnica teatrale e di espressione teatrale.
Ma questo non vuol dire che il teatro, pur essendo uno strumento multiforme, o dalle molti forme, posa invece essere fruito da tutti proprio perché si può esprimere, come vanno di moda oggi, in tante altre modalità, con tecniche miste, reading, musica, parole ed immagini.
Adesso a volte addirittura con proiezioni digitali, computer, luci… cioè è una tavolozza di colori nella quale l’artista, secondo me, deve sempre intingere il proprio pennello e cercare di creare dei quadri nuovi: questa è la forza del Teatro.
Quindi questa camaleonticità, mi si passi il termine, deve essere sfruttata da tutti. Poi ognuno deve farlo secondo gli strumenti, e le cognizioni, e le informazioni che ha avuto.
Quindi un bel progetto teatrale ideale potrebbe essere un altro bel pezzo di prosa che veicoli delle emozioni.



