LVD INTERVISTA LORENZO CUTÙLI

Lorenzo Cutùli è uno dei più raffinati scenografi italiani, capace di coniugare pittura, scultura e visione teatrale in un’unica poetica dell’immagine.
Diplomato con il massimo dei voti all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha collaborato con maestri come Claudio Abbado, Luca Ronconi, Robert Wilson, Peter Greenaway e molti altri, firmando progetti per produzioni di grande prestigio in Italia e all’estero.
Pittore e scultore, docente di Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Venezia, nel 2014 ha ricevuto il “International Opera Award – Oscar della Lirica” come miglior scenografo.
La sua ricerca attraversa teatro, arti visive e design, in un costante dialogo tra spazio, luce e forma.

L’arte di costruire mondi.
La scenografia è spesso invisibile eppure fondamentale.
Come definiresti il ruolo della scenografia nel teatro contemporaneo? È ancora un luogo di poesia o è diventata più tecnica e funzionale?

La scenografia è, da sempre, l’arte di evocare l’invisibile.
È il respiro nascosto del teatro. Anche quando il pubblico non la “vede”, la scenografia lo accoglie, lo guida, lo emoziona.
La scenografia è il primo impatto spaziale che il pubblico vede all’apertura del sipario, creando un clima, una evocazione.
Spesso si pensa che lo spazio scenico sia solo un fondale, un contenitore, una macchina funzionale.
Ma io non credo a una scenografia che si limiti a servire l’azione. Credo invece a una scenografia che partecipa poeticamente alla narrazione, che respira con gli attori, che ha un’anima.
Il teatro contemporaneo ha sicuramente portato con sé una forte spinta verso la tecnologia, la velocità, la sintesi. E va bene così: dobbiamo saper parlare il linguaggio del nostro tempo. Ma questo non significa rinunciare alla poesia. Anzi.
La vera sfida oggi è tenere insieme la precisione della tecnica con la leggerezza del sogno con l’intento di creare lo stupore.
Quando progetto una scena, io cerco sempre una crepa da cui possa entrare la luce dell’altrove. Una materia che non sia solo struttura, ma vibrazione.
Mi interessa la scenografia che non descrive, ma che suggerisce, che evochi. Che non impone, ma che ascolta lo sviluppo dello spettacolo.
Il palcoscenico, per me, è ancora un luogo sacro, dove tutto è possibile. E la scenografia è l’atto di fede più concreto di questo mistero: trasformare un vuoto in un mondo.
Se smettiamo di cercare la poesia in ciò che facciamo, allora abbiamo già perso il senso del nostro mestiere. La tecnica è necessaria, certo. Ma senza una visione, senza l’emozione, senza quell’urgenza di dire qualcosa con lo spazio… la scenografia non esisterebbe.
Io voglio continuare a costruire mondi. Anche quando crollano. Anche quando nessuno li nota.
Perché forse è proprio lì, nell’invisibile, che vive la verità del teatro.

Tra pittura e scena.
Sei pittore, scultore e scenografo.
Come si influenzano reciprocamente questi linguaggi visivi?
Quando inizi un nuovo progetto, parti dal colore, dalla luce o dallo spazio?
Per me non esistono confini rigidi tra pittura, scultura e scenografia. Sono solo diverse modalità di un unico gesto: dare forma all’invisibile.
Tutto parte sempre da un’immagine interiore. Prima ancora che spazio, colore o luce, c’è un’eco. Una sensazione visiva che non ha ancora corpo, ma già vibra.
La pittura mi insegna la profondità del silenzio. Mi insegna ad ascoltare il vuoto, a percepire il peso del colore e il ritmo delle forme.
Quando dipingevo (ora ahimè lo faccio raramente per questione dei vari impegni professionali), entravo in uno stato di sospensione — e quel silenzio poi l’ho sempre portato nella scena.
La scultura, invece, mi restituisce la materia. La gravità. La verità fisica del corpo nello spazio.
È la mia bussola quando creo una struttura, quando immagino un ambiente che non sia solo bello, ma anche abitabile da un corpo e un’anima in movimento.
E la scenografia è il punto in cui tutto si unisce.
È il luogo in cui la pittura diventa architettura, la scultura si fa narrazione, e la luce — ah, la luce! — diventa la vera protagonista di una drammaturgia silenziosa.
Quando comincio un nuovo progetto, non c’è una regola.
A volte parto da una sensazione cromatica. Un solo colore che contiene tutto il respiro dello spettacolo. Altre volte è un taglio di luce che mi attraversa mentre cammino, e so che sarà quello il segno dominante. Altre ancora è lo spazio: un’idea di orizzonte, un vuoto, un confine che mi chiama.
Ma sempre, come una costante, c’è una domanda che mi guida: che cosa deve sentire il pubblico prima ancora di capire?
Pittura, scultura e scenografia sono come tre strumenti che suonano insieme. Nessuno prevale: si ascoltano, si rispondono, si contaminano.
Alla fine, tutto è scena. Anche una tela. Anche una pietra. Anche un gesto tracciato nell’aria con un filo di luce.
E io non smetto mai di cercare quel punto esatto in cui il visibile si apre e diventa emozione.
Perché è lì che comincia il mio vero lavoro.

Hai lavorato con grandi registi e artisti, da Ronconi a Greenaway. Cosa hai imparato da questi incontri e quale collaborazione ha lasciato un segno indelebile nel tuo modo di concepire la scena?
Ogni incontro con un grande regista è stato un’epifania.
Non solo per ciò che mi ha insegnato, ma per come ha acceso dentro di me domande nuove.
Lavorare con maestri come Luca Ronconi o Peter Greenaway o Robert Wilson non è stato semplicemente un privilegio: è stato un atto di trasformazione e di evoluzione del mio stile e del mio concepire lo spazio scenico, insomma della formazione di un nuovo sguardo.
Da Ronconi ho imparato la profondità della complessità.
La sua scena non era mai un contenitore, ma un pensiero tridimensionale. Un sistema di significati in cui ogni elemento era necessario e mobile, in ascolto dell’altro. Con lui ho capito che lo spazio può diventare parola, argomentazione, persino ideologia. La sua precisione era vertiginosa. Ma non c’era nulla di freddo: era lucidità visionaria.
Greenaway, invece, mi ha mostrato la potenza della forma pura, dell’immagine come linguaggio assoluto.
Con lui il teatro si dissolveva nel cinema, nella pittura, nell’installazione. Ogni dettaglio era un codice. Ogni quadro, una dichiarazione.
Mi ha insegnato che la scena può essere barocca, spietata, geometrica — eppure restare profondamente sensuale.
Ma non potrei parlare solo di una collaborazione che mi ha cambiato. Piuttosto, sono i contrasti fra queste visioni che hanno nutrito la mia identità. L’austerità geometrica ma anche visionaria di Ronconi e l’eccesso controllato di Greenaway. La sottrazione e la saturazione. Il rigore e il delirio.
Un altro importate incontro è stato quello con Bob Wilson di cui sono stato scenografo collaboratore.
Entrare nel suo mondo, che già conoscevo, è stato come entrare in una cattedrale di luce e silenzio.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho visto uno dei suoi lavori dal vivo: la scena era immobile, cesellata, quasi ultraterrena… eppure tutto vibrava. Era come se il tempo si fosse fermato per permetterci di vedere davvero. Non solo lo spettacolo, ma noi stessi, riflessi in quell’estetica così pura, da diventare metafisica.
Collaborare, anche se solo per una parte del mio cammino artistico, con lui — o semplicemente stargli vicino mentre creava— è stata un’esperienza che ha cambiato la mia percezione del teatro. Bob non lavorava sullo spazio: lo scolpiva. La luce, per lui, non era un’illuminazione, ma una materia viva. Il gesto, la postura, persino l’ombra esprimevano una grammatica sacra.
Da lui ho imparato l’assoluto rigore del dettaglio. L’ossessione, sì — ma un’ossessione poetica, spirituale. Nulla è lasciato al caso, perché ogni elemento è un segno, ogni pausa è un respiro caricato di significato.
Con Wilson ho capito che la scenografia può essere assenza che parla, che può suggerire senza mostrare, evocare senza spiegare. E soprattutto, ho scoperto la potenza del rallentare.
In un tempo che corre sempre più veloce, Bob ci ha insegnato che il teatro è ancora uno spazio per la contemplazione, che ci può commuovere con una sedia, con un taglio di luce, con un viso che si volta con la lentezza di un rito. Mi ha insegnato a guardare in silenzio, a lasciare che la forma si riveli da sé, senza forzarla.
Ogni volta che entro in uno spazio teatrale, porto con me quella lezione. E la voce muta di Bob Wilson — così piena di visione e mistero — mi accompagna ancora, come un’eco sottile, dentro ogni segno scenico che progetto. A ogni incontro, ho portato via un gesto, uno sguardo, una tensione. E li ho mescolati al mio modo di pensare lo spazio. Perché la scena, per me, non è mai solo tecnica. È il risultato di una relazione. Di un’alchimia tra visioni.
È in queste relazioni che ho imparato a disimparare.
A lasciare andare le sicurezze. A restare vulnerabile, aperto, in ascolto. Oggi, quando progetto uno spazio scenico, porto con me le loro voci. Non per imitarle, ma per ricordarmi che il teatro è, prima di tutto, un luogo di confronto, di rischio, di verità condivisa.
E ogni volta che la scena si accende, in quel breve miracolo di luce e silenzio, so di non essere mai davvero solo.

La formazione dello sguardo.
Da docente insegni a nuove generazioni di artisti e scenografi.
Qual è la prima cosa che cerchi di trasmettere ai tuoi studenti quando parli di teatro e di visione?
La prima cosa che cerco di trasmettere ai miei studenti è che guardare non basta. Vedere è un atto superficiale.
Formare lo sguardo, invece, è una pratica profonda, quasi spirituale. È imparare a sentire con gli occhi. A cogliere ciò che non è immediato. A leggere il silenzio, a percepire la tensione nello spazio vuoto, a dare peso anche a ciò che non è disegnato.
Il teatro non è fatto solo di forme, luci e colori. È fatto di intuizioni, di relazioni invisibili, di presenze che sfuggono al controllo.
Per questo, quando parlo di visione, non intendo solo la capacità di immaginare una scena, ma quella di accogliere la complessità del reale — e trasformarla in linguaggio.
Ai miei studenti dico spesso: “Non disegnate scenografie. Disegnate respiri, squilibri, tensioni emotive. Disegnate l’invisibile. Poi, se serve, aggiungete anche le pareti.”
Insegno loro a non avere paura del vuoto, dell’imperfezione, del dubbio. Perché lo sguardo di un artista non deve cercare conferme, ma domande. Deve restare in ascolto.
Cerco anche di educarli a costruirsi un proprio immaginario, al quale poter attingere, al quale fare costante riferimento in un continuo aggiornamento e revisione. Non fermarsi mai alle prime idee, alle prime suggestioni, ma scandagliare le diverse possibilità che le drammaturgie dei testi offrono, per potersi mettere in ascolto della parola.
E poi, soprattutto, cerco di ricordare ogni giorno — anche a me stesso — che la scenografia non è un oggetto da costruire o uno spazio da “arredare”, ma un mondo da abitare.
In fondo, formare lo sguardo significa educare alla meraviglia. A quel momento sacro in cui lo spazio smette di essere materia e diventa poesia incarnata che crea lo stupore.
Se riesco a far intravedere questo, anche solo per un istante, allora sento che il mio lavoro di docente ha senso.
Perché il teatro — come la vita — comincia sempre da uno sguardo che osa andare oltre.

In Italia si parla spesso di mancanza di sostegno all’arte e al teatro. Come incide, secondo te, questa realtà sul lavoro di chi calca – nelle varie attività – il palcoscenico, e come si può ancora “resistere” artisticamente?
È vero, in Italia l’arte — e il teatro in particolare — vive spesso in una condizione di fragilità strutturale.
Viviamo in un paese che ha generato alcune delle forme più alte di bellezza eppure, paradossalmente, fatica a riconoscere il valore profondo dell’arte contemporanea.
Il sostegno istituzionale è spesso insufficiente, discontinuo, burocratico. E questo incide drammaticamente sul nostro lavoro: si traduce in precarietà, in produzioni compresse, in spazi negati o smantellati, in un’ansia continua che prosciuga la possibilità di creare con respiro.
Ma — ed è un “ma” che mi brucia dentro — noi resistiamo, proponendo l’alternativa di nuovi sguardi e studiando nuovi approcci.
Resistiamo perché non possiamo fare altrimenti. Perché chi sceglie il teatro come linguaggio non lo fa per convenienza, ma per necessità. È un richiamo profondo, quasi carnale.
Ogni volta che salgo su un palcoscenico, o che traccio una linea su un bozzetto, so che sto affermando un gesto politico e poetico insieme. Resistere artisticamente oggi significa non smettere di immaginare. Anche — e soprattutto — quando tutto ci spingerebbe a rinunciare. Dobbiamo proteggere con tenacia la nostra libertà creativa. Reinventare forme, allearci tra artisti, formare nuove generazioni che abbiano uno sguardo e coltivino il coraggio.
La bellezza non è un lusso. È una necessità civile. E il teatro, con la sua capacità di farsi specchio e sogno, è ancora uno degli ultimi luoghi dove l’essere umano può riconoscersi intero, fragile, profondo.
Allora, sì: il sostegno manca. Ma ciò che non manca — e non deve mai mancare — è la nostra urgenza di raccontare, di creare mondi, anche con il niente. Di accendere una luce, anche quando intorno tutto sembra buio. Questa è la nostra resistenza.
E io, finché avrò fiato, mi impegnerò nel continuare a progettare spazi per accogliere quella scintilla.

un progetto di:

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