ALESSANDRO DALL’OLIO INCONTRA EDOARDO D’ELIA

Docente, divulgatore e autore, Edoardo D’Elia insegna Scrittura e argomentazione all’Università di Bologna e Public Speaking alla Bologna Business School.
È autore del volume “Parlare. Strumenti e tecniche del discorso” (Hoepli) e curatore de “La Merenda”, progetto di divulgazione culturale che dal 2023 è anche un podcast show dedicato ai mestieri dell’arte, dello spettacolo e della creatività.
Con un approccio brillante e accessibile, D’Elia indaga da anni le forme della parola pubblica, la sua efficacia e il suo potere culturale.

Parlare come atto culturale.
Nel tuo libro e nella tua attività di docente il parlare non è solo una competenza tecnica, ma un gesto culturale e relazionale.
Cosa significa oggi, secondo te, saper parlare in un mondo che comunica in modo sempre più veloce e frammentato?


Guarda, parto con una cosa molto banale.
Saper parlare significa, prima, saper ascoltare e mettere interlocutore nella condizione di voler parlare con te.
Perché a chiunque piace parlare di sé, piace raccontarsi, piace dire delle cose, ma a quello che piace davvero a tutti, in maniera più profonda, è sentire che qualcuno è interessato a sapere quello che hai da dire.
In un contesto come quello che viviamo, sempre più veloce, sempre più frammentato, ci sono pochi, forse nessuno, contesti sociali in cui si può parlare, discutere, ragionare insieme per più di qualche minuto.
E soprattutto ci sono pochissimi, quasi nessuno, in cui si può parlare senza essere interrotti.
Sembra che non ci sia proprio modo di avere dei turni di conversazione, come si direbbe.
E quindi alcuni contesti come l’università, naturalmente, che però è un contesto un po’ chiuso, ma soprattutto al formato del podcast, quindi delle discussioni lunghe, permette di fare quello che in altri frangenti non si può fare.
E cioè avere qualcuno che sta lì, che tu ascolti, a cui fai domande, che fai in modo che tiri fuori qualcosa per molto tempo, anche per un’ora, per un’ora e mezza.
E quella cosa, per assurdo, è possibile proprio perché c’è un microfono e perché c’è una telecamera, o c’è un pubblico dal vivo, che ti guarda, e quindi tu ti senti giustificato, ti senti legittimato, nel poter parlare e di te, nel poter dire delle cose, nel poter ragionare sui temi a lungo; perché ti è già stato detto, in maniera implicita “siamo qua per questo” e quindi lo puoi fare. Invece, nel resto della vita bisogna guadagnarselo, strappare un pezzettino, riuscire a trovare un pertugio, trovare sempre quel momento in cui infilarsi, dire qualcosa, nella speranza che qualcuno raccolga, prima di essere brutalmente interrotti.
Forse ti direi che è un po’ questo, è un po’ questo il punto.

La scena della parola.
L’arte oratoria ha molto in comune con la scena teatrale: presenza, ritmo, ascolto.
Quanto il teatro può insegnare al public speaking — e viceversa?

Io ti direi che più di pensare a cosa può insegnare un all’altro, direi che naturalmente ci sono degli spazi di sovrapposizione.
Però c’è una differenza di base che è quella del patto tra chi è sul palco e chi ascolta, e chi è nel pubblico.
Nel teatro è un patto chiaro, è un patto sottoscritto in maniera più o meno consapevole, però è lì, per cui chi è sul palco deve fare una cosa e chi è tra il pubblico deve farsela piacere o meno.
È vero che abbiamo rotto la quarta parete tanto tempo fa, però anche la quarta parete che viene giù è quel pezzettino di quel patto lì.
Il public speaking è una disciplina che si occupa di una serie di altre situazioni comunicative, più interlocutorie, e quindi di botta-e-risposta, più immerse anche in mezzo agli altri.
Quindi non solo io che parlo con una persona, quindi uno a uno, io che parlo davanti a tante persone, quindi un discorso che assomiglia di più una cosa che si fa su un palco, ma anche le conversazioni, anche i dibattiti, anche i tentativi di persuadere in base a quello che io riesco a raccogliere dalla situazione in cui sono e dall’altra persona.
Quindi, diciamo che lo spazio di sovrapposizione è quello della tecnica di base, però la tecnica di base del public speaking, dell’oratoria, è più o meno quella da ennemila anni, non è che ci sia molta differenza.
Poi viene affinata, viene soprattutto calata, calata nel contesto, nella situazione e nel tempo che cambia e quindi cambiano i registri, cambiano i modi di parlare, queste cose cambiano in maniera ciclica, più o meno, però bisogna imparare a modularsi su quello.
Quindi ti direi che più che cosa può insegnare, è cercare di capire cosa stiamo effettivamente facendo e come applicare quegli strumenti, quelle tecniche che sono millenarie, ma vanno applicate in una maniera efficace rispetto appunto all’obiettivo preciso che abbiamo.

Insegni scrittura e argomentazione a studenti universitari.
Come si trasmette la passione per la parola e la comunicazione in un’epoca dominata dall’immagine e dall’algoritmo?

Allora, c’è un punto, forse vale anche per la scrittura ma sicuramente per l’oralità, per la parola, vale di più, è più lampante: se io voglio provare a insegnarti qualcosa, voglio provare a insegnarti e darti gli strumenti per imparare a parlare meglio, la mia credibilità, la mia autorevolezza, esiste nel momento in cui apro bocca, oppure non esiste.
La credibilità io me la devo conquistare subito, perché insegnare a qualcuno, a parlare un pochino meglio mentre stai parlando molto male tu, funziona poco.
Ma questo come effetto collaterale positivo ha che quella passione è trasmessa immediatamente, perché tu senti, tu vedi, quella cosa che ti sto provando a spiegare, la vedi, la senti fare in quel momento lì e quindi senti immediatamente questa passione, questa anche un po’ ossessione della parola, di come dire le cose, di come si possono dire in un modo, in un altri, che effetto fa sugli altri, la fisicità del suono, il potere anche proprio che le parole hanno di incidere sulla realtà, etc., etc., quindi direi che la passione poi passa da lì.
La questione dell’immagine dell’algoritmo mi pare un problema poi relativo, nel senso che l’immagine sono video ormai, siamo pieni costantemente di video di persone che parlano, perché nella saturazione dei contenuti, l’unica cosa che può emergere sono le facce, sono le persone che parlano.
Questo ci porta ad avere una marea, una infinità di materiale in più rispetto a prima, che possiamo analizzare, che se abbiamo qualche criterio, qualche strumento, per analizzarlo bene, ci fa solo da grande archivio, da grande materiale su cui studiare e su cui esercitarsi. L’algoritmo, su algoritmo ti dico quest’altra cosa, su cui stavamo riflettendo negli ultimi tempi: se tu prendi le intelligenze artificiali che riproducono il linguaggio parlato, che riproducono la parola, io posso tranquillamente prendere un testo grezzo, buttarlo dentro a ChatGPT, buttarlo dentro una AI e mi prende la mia faccia, fa muovere le labbra, secondo quello che deve dire, e gli fa dire una cosa pulita, una cosa anche abbastanza credibile, con una voce che assomiglia alla mia.
Qual è la novità? E che è quel tipo di parola lì, quel tipo di discorso, assomiglia sempre più a un discorso umano, cioè non è robotico, non è rigido, non è freddo, non è troppo preciso, ha un po’ di esitazioni, un po’ di stonature, un po’ di cose piccole, di errori che fanno assomigliare quel tipo di parlato lì al parlato di un essere umano.
Quindi vediamo che anche l’intelligenza artificiale cerca di assomigliare a qualcosa di caldo, a qualcosa di più umano, quindi è vero che c’è l’algoritmo, è vero che per assurdo quel tipo di algoritmo lì sta cercando di avvicinarsi a un modo di parlare che sia più caldo, più credibile, più accogliente, più personale, più idiosincratico, più rovinato, con qualche screziatura che però assomiglia a qualcosa che io voglio effettivamente dire, e che mi passi come una cosa che ha un senso, e non soltanto come una sequenza di parole ben dette, robotiche, fredde che però poi non funzionano, non funzionano granchè perlomeno, non rimangono molto impresse nella memoria.

“La Merenda” come spazio culturale.
Il tuo progetto La Merenda unisce divulgazione, dialogo e intrattenimento, accogliendo ospiti del mondo dell’arte e della cultura.
Come nasce l’idea di questo format e cosa ti interessa esplorare attraverso le conversazioni che proponi?


Ti sto rispondendo col mio gatto in braccio ed è perfetto, perché la Merenda nasce nella sua prima versione col gatto in braccio.
Era il 2013, giravo in casa di mio padre sul divano del salotto, e ai tempi io ospitavo solo studiosi, scienziati, letterati che venivano a raccontare le loro ricerche. L’obiettivo era fare divulgazione scientifica.
E io, nella modalità del talkshow, volevo fare la parte della divulgazione; io facevo la parte un po’ più pirotecnica e loro potevano raccontare le loro cose.
E ai tempi il gatto saliva sul divano, in braccio agli ospiti, perché era casa sua, era il suo divano e ci rubava anche la merenda.
Si chiamava la Merenda perché facevamo una merenda in salotto. semplicemente.
Poi, dopo un po’ di tempo, che ho fatto un po’ di puntate, poi ho fatto altro, cioè mi sono occupato di altri format, di altre cose che ho sperimentato, ma è sempre stato il mio pallino, è sempre stata la cosa che mi piaceva davvero fare e che volevo fare.
Cioè parlare con le persone e fare divulgazione culturale attraverso la parola, attraverso il dialogo, attraverso la conversazione.
Quindi l’ho ripresa, ormai più di due anni fa, e l’ho portata fuori; a quel punto per esistere, anche emergere in qualche modo, sulla mappa dei social, non soltanto, ho cominciato a chiamare personaggi che fossero sempre un pochino più mediatici.
Quindi raccontare come si vive di cultura, anche di creatività, di arte, di spettacolo.
E, essendo fuori, quindi negli studi non più in casa, chiedevo alle persone di salutare il mio gatto perché non poteva più venire lui, non aveva nessuna voglia di uscire di casa, dicevo se me lo salutavano… così è nata poi quella cosa per cui alla fine di ogni puntata tutti gli ospiti hanno sempre detto “ciao Pruciz”, hanno salutato il gatto.
L’obiettivo è questo. L’obiettivo è far raccontare alle persone quello che fanno, per capire un pochino meglio i temi, più che i percorsi.
E perché si può vivere effettivamente di cose rilevanti, che sono secondo me molto rilevanti, che sono le cose culturali, le cose artistiche, che non sono in nessuno modo ornamentali, che non sono decorative, che non sono dei passatempi, ma sono fondamentali, fondative per tutto quello che facciamo.
Non si può prescindere da quello. Quindi diciamo che l’obiettivo in questo momento è questo qui.
E la conversazione è per me il miglior modo di fare emergere dei significati per due motivi: per quello che ti dicevo nella prima domanda, e cioè che ascoltare le persone e fare in modo che le persone sappiano, che è importante, per qualcuno quello che dicono, è il modo migliore per fargli dire le cose più belle, le cose più profonde, le cose più interessanti, e anche perché la conversazione, a differenza di altro, esiste solo nel momento in cui esiste.
Cioè i significati che vengono fuori da uno scambio sono significati che possono venire fuori solo e esclusivamente in quello scambio lì, e non sono replicabili.
E questa cosa qua, per me, è molto più affascinante del testo che io scrivo, rimane lì, poi può essere cambiato ma a un certo punto viene licenziato, però in una maniera molto più meccanica per assurdo.
Lì invece ha un significato che emerge, da uno scambio, e poi non è più replicabile.
Lo puoi vedere con una testimonianza video, però non lo puoi rifare, e questo per me è molto affascinante.
Invece per dirlo in termini più semplici e più diretti, come mi ha detto un mio amico qualche giorno fa, sentendo le conversazioni che faccio con questi ospiti, che richiamano molte delle cose che poi io dico con i miei amici, che dico con i miei genitori, che dico in casa, che dico col gatto quando ci parlo, “alla fine stai operando questa sorta di salottizzazione del mondo.
È come se portassi le persone che ti piacciono e che ti interessano a parlare con te nel tuo salotto”. Sì e mi sembra un grande privilegio. Quando il salotto non è la decorazione, non è il passatempo borghese, ma è il contrario, cioè il momento in cui c’è un confronto vero e in cui si costruisce la propria identità misurandosi con gli altri.

Il teatro della comunicazione.
Parlare in pubblico, insegnare, condurre un’intervista… tutto accade davanti a un pubblico.
Ti senti, in qualche modo, un “attore della parola”?
E quanto conta la dimensione performativa nella comunicazione?

Qua ti rispondo come ti ho risposto alla prima domanda, c’è sicuramente una parte di sovrapposizione, pensa solo all’aggettivo teatrale, si può usare anche per una persona, per come parla nella vita di tutti i giorni, una persona più teatrale o meno teatrale.
Si può imparare a essere più espressivi o meno espressivi, ti rispondo con quello che mi è stato detto nell’ultima puntata che abbiamo pubblicato, girata al teatro Regio di Parma, da Bruno Taddia, che è un intellettuale, è un docente di interpretazione dell’Accademia verdiana, è un baritono, una persona davvero di grandissimo spessore e una persona molto affascinante quando parla, lo ascolteresti per ore.
Lui dice questa cosa, parlando dei cantanti: un cantante che impara a cantare, che prepara un’opera, a un certo punto si ossessiona pensando di dover prendere quella nota lì, come se il suo lavoro, il suo compito, il suo obiettivo, fosse prendere quella nota nel modo giusto. Invece il compito suo è usare quella nota per dire qualcosa, per trasmettere un’emozione, per dire qualcosa.
Allora è lì che cambia il punto. Io posso usare la mia voce, posso usare il mio corpo, posso usare la gestualità, la prossemica, la teatralità, tutto quello che voglio, ma deve essere in funzione di quello che voglio dire.
Altrimenti non funziona mai, sia sul palco che fuori dal palco.
Finiamo con un riferimento po’ più basso, tipo public speaking, quando ci citano gli americani… in italiano si dice esporre un discorso, tenere un discorso o esporre qualcosa, come se noi fossimo in vetrina; diciamo la nostra cosa, gli altri la vedono e poi vedremo cosa succederà. In inglese si usa deliver, cioè portare.
Quando tu vedi qualcuno che si esibisce dice “la parte di delivery”, il modo in cui la portata ha funzionato di più o di meno: questo significa che tu hai una cosa che devi dire, e la devi portare a quello che la deve ascoltare.
Come la porti è il tuo modo, è il prendere la nota, ma è uno strumento, conta quello che deve arrivare lì, quindi se tu ti concentri su: 1) cosa effettivamente vuoi dire e 2) se e come arriva a chi, il resto dopo in qualche modo si fa.

Cultura e futuro.
Come vedi lo stato attuale della cultura e delle arti performative in Italia?
C’è qualcosa che vorresti cambiare nel modo in cui il nostro Paese investe — o non investe — nella parola, nel teatro, nella cultura?

Questa è una domanda pressoché impossibile, in senso che richiederebbe analisi, distinzioni, sfumature, dati.
Posso dirti due cose che mi vengono in mente.
La prima è che siamo in un periodo storico in cui grazie ai sociali ci si può creare un pubblico e si può capitalizzare quel pubblico lì; questo, ovviamente, ha forse più a che fare con l’intrattenimento, però, se tante persone, se un po’ di persone si spostano e vanno fisicamente tutte insieme in un locale, in un teatro, da qualche parte, quello è comunque positivo.
Quindi, in realtà ci sono degli aspetti, degli effetti collaterali positivi anche di questo.
Per quanto riguarda gli investimenti sull’arte, c’è sempre questo pregiudizio, c’è sempre stato, e probabilmente sempre ci sarà, per cui l’arte se non è, se non risponde alle stesse dinamiche di mercato, di monetizzazione, di quantificabilità, di tutto il resto, viene delegittimata.
È una cosa per me incomprensibile, perché non può essere così, deve essere esattamente il contrario.
Eppure questa cosa penso che sarà una lotta infinita.
Quello che vorremmo fare noi, e qua faccio io la capitalizzazione, cerco io di monetizzare questa risposta, non monetizzarla però… quello che stiamo cercando di fare noi con questo nuovo format, che è la Merenda Leggera, quindi sarà La Merenda però accompagnata dall’orchestra, a teatro, con interviste, ospiti, monologhi, musica, è di fare uno spettacolo che ha una funzione forse propedeutica.
Cioè mi piace pensare che sia uno spettacolo propedeutico.
Cioè che mantiene tutte quelle parti di spettacolo più accoglienti, più vicine al pubblico, più simili a cosa che vedono tra il teatro e i social, la televisione, tutti i media di quel genere lì, e per convincerli poi a tornare a teatro.
Non solo a vedere noi di nuovo, ma soprattutto a tornare a teatro.
Cioè a sentire quella cosa lì, quella atmosfera lì per poi dire “ok, allora voglio tornarci”.
Lo sto facendo con i ragazzi e le ragazze del mio team con l’opera lirica, non erano mai stati a vedere l’opera, da quando abbiamo cominciato a lavorare con i teatri dell’opera, li ho portati.
Ho provato a spiegarglielo in tutti i modi, “guarda che l’opera, in realtà…”, lo puoi spiegare, lo puoi spiegare, non funziona mai.
Se li prendi e li porti, piangono, come ho pianto io.
Cioè l’emozione è talmente forte che uno dice “ok, io voglio rivivere questa cosa”.
Non “ho capito perché è importante”, non funziona in quel modo lì. Quindi il nostro umile, e allo stesso tempo incredibilmente ambizioso, obiettivo è questo qui.
Provare a accoglierti, a dire “prova a venire… andiamo… vieni dentro… facciamo questa cosa, vediamo che cosa succede”.
E se poi magari ti piace e torni, e dici “sai che poi andare a teatro non è male”.

Durante le tante puntate e incontri de La Merenda, avrai vissuto momenti curiosi, toccanti o sorprendenti.
C’è un aneddoto che ti è rimasto impresso — un episodio che racconta bene lo spirito del progetto o il modo in cui la cultura sa ancora creare incontro e meraviglia?

Si guarda, ce n’è uno in particolare che mi porto nel cuore da più di un anno, anche perché è stata la genesi del nuovo format che partiamo a teatro, La Merenda Leggera.
La prima puntata della stagione scorsa venne ospite Beppe Vessicchio. Fu una puntata bellissima, c’erano tantissime ragazze, ragazzi, ad assistere. Lui fu molto contento, gli piacque molto.
E dopo la puntata stavamo bevendo una cosa, disse: “Però questa cosa è molto bella, con un sacco di ragazze e ragazzi funziona, perché non la fai a teatro? Perché non la fate a teatro?”
Come poi immaginare mi sembrava brutto contraddire Vessicchio, quindi abbiamo poi trovato il modo di farla a teatro.
La cosa bella poi è che le combinazioni succedono sempre per conto loro, e in quella puntata ad assistere c’erano ragazzi di Leggera, l’ensemble orchestrale, con cui faremo La Merenda Leggera.
E quindi si sono uniti puntini e nel giro di un anno siamo riusciti a imbastirlo.
Quindi è sempre, vedi, quello che ti dicevo prima: è dagli incontri che emergono cose che altrimenti non sarebbero potute emergere, è dalle conversazioni, dagli scambi, che ogni tanto nascono delle cose, che erano imprevedibili, e a cui bisogna prestarsi, che bisogna accogliere, cioè bisogna essere lì con le antenne e cercare di captare le cose che arrivano.
Adesso andiamo veramente a teatro, discreta paura, perché è una novità, perché è un teatro vero, è grande, il format è diverso.
E quindi la prima puntata che sarà il 26 novembre 2025, sarà sulla paura.
Ogni puntata sarà su un tema universale, ci sarà la paura, la nostalgia, la morte, la rabbia, la vanità, il sesso, ma partiamo dalla paura, cerchiamo di capire che cos’è la paura, e vedere se insieme, se stiamo tutti nel stesso posto, se ci vediamo, se stiamo lì, forse, la riusciamo a sconfiggere.
Quindi direi che ci vediamo il 26, mercoledì 26 novembre 2025.

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